Le ferite dei non amati

Ronald Laing, psichiatra scozzese, scriveva nel suo libro “L’Io diviso”:

“Tutti dovrebbero poter tornare indietro con la memoria ed essere certi di aver avuto una mamma che amava tutto di loro, anche la pipì, anche la cacca. 

Chiunque dovrebbe poter essere sicuro che la mamma gli voleva bene giusto perché era lui, e non per per quello che avrebbe potuto fare. Altrimenti non ci si sente in diritto di esistere, si sente che non si sarebbe mai dovuti nascere. Non importa cosa succede poi a questa persona, non importa se soffre, può sempre guardare indietro e sentire che può essere amato. Può amare se stesso: non può più rompersi. Ma se non può tornare su queste cose, allora può rompersi. Ci si può rompere soltanto se si è già a pezzi.” 

Cosa significa essere stati amati?

O meglio ancora, cosa significa non esserlo stati?

Mi riferisco qui alla storia più antica di tutti noi, quella che è stata scritta dalle prime interazioni che ogni essere umano ha con chi si prende cura di lui, con chi funge da modello per interpretare il mondo, sia dentro che fuori di sé, con chi rappresenta la possibilità di esprimere ed accettare pienamente se stessi, o meno.

La ferita del non amore si produce in chi non è stato amato abbastanza o lo è stato nel modo sbagliato (ovvero, non amato incondizionatamente per quello che era ma piuttosto per quello che faceva, rappresentava o che avrebbe potuto essere; non riconosciuto in alcuni fondamentali bisogni o attitudini personali, ma criticato, scoraggiato, non accettato perché diverso da un ideale immaginato), così come in chi è stato amato troppo (e quindi soffocato nella propria individualità).

Questa ferita viene procurata, senza volerlo, senza saperlo…non è un processo…dalle persone più vicine (i nostri genitori, gli educatori), in modo inconsapevole, appunto: molto spesso loro stessi sono stati oggetto di questa dinamica a loro tempo nell’infanzia, ma non avendola vista e modificata, l’hanno riproposta automaticamente senza saperlo.

Ciascuno potrà vivere la sua particolare forma di non amore, che sempre si manifesta sotto mentite spoglie. Si, perché la consapevolezza del proprio essere non amato spesso è troppo dolorosa, specie se si è un bambino di pochi anni: ecco che questa consapevolezza si apre complicate vie di fuga. Lo scenario è un vuoto affettivo che si cela dietro molte maschere. 

Emblematiche le parole di una paziente:” mia madre respingeva ogni richiesta di tenerezza e affetto…Ricordo ancora le sue braccia nervose ed infastidite, quasi imbarazzate, quando cercavo di accovacciarmi sulle sue gambe. Mi sono ritrovata a elemosinare quotidiane dosi di amore.”

E questo per dire che l’ oltraggio al bisogno di amore di un essere umano non è necessariamente rappresentato da abusi, incurie, espliciti atteggiamenti maltrattanti.

La sensazione di essere rifiutati, non compresi, non accettati, ignorati viene nel tempo repressa proprio in quanto decisiva per il proprio equilibrio emotivo. 

Le persone trovano la loro via per sopravvivere, la loro strategia per occultare la ferita che così cicatrizza. Per non dover provar più pena per quella ferita, costruiscono una “maschera”, che indossano senza averne minima consapevolezza.

“La ferita risana, la cicatrice resta” diceva Seneca. Resta nel momento in cui, come ho detto sopra, si costruiscono nel tempo, delle maschere per non vedere quelle paure, quelle limitanti ingiunzioni direbbe Berne, che rimangono intatte nell’anima di coloro che sentono una qualsiasi forma di vuoto affettivo.

Ed ecco che ciascuno da bambino, nel costruire il proprio copione, si ingegna ad assumere modi di relazione con se stesso e con gli altri che rappresentano la migliore risposta per sopravvivere a quella ferita.

Ciascuno di noi può avere più maschere, anche se generalmente ce n’è una, che risulta maggiormente predominante e strutturante rispetto alle altre. 

Allora c’è colui (o colei) che va in giro per il mondo in cerca di conferme del suo valore o di essere meritevole di amore, a colmare quel vuoto, incolmabile tuttavia,  di riconoscimenti e di fiducia in se stesso; c’è chi è in eterno affanno perché nulla e nessuno fuoriescano dal proprio rigido controllo nell’illusione che tutto a posto fuori corrisponda ad un tutto a posto dentro; e c’è anche chi ha deciso (inconsapevolmente, ovvio) di sanare le ferite del “non amore” costruendosi una corazza per tenere lontani gli altri…e potremmo andare avanti: in comune queste maschere hanno tutte il fatto di andare in direzione opposta alla possibilità di costruire sane relazioni.

Ancor prima che con gli altri, anche con se stessi.

I “non amati” hanno bisogno di ricostruire un io “amabile”. Una sorta di riconciliazione tra la parte ferita, quella dipendente da dolore, e quella intatta, che  può trovare in se le risorse per realizzarsi.
Se io non mi amo abbastanza da desiderare e ricercare il meglio per me stesso, come posso sperare che altri provino per me un amore più grande di quello che mi concedo?